Un dono che salva la vita
Ecco una testimonianza commovente di una giovane mamma
che ha donato il suo midollo osseo a una persona ammalata di leucemia
Avevo fatto la tipizzazione qualche anno prima di sposarmi; poi, come tutti quelli che si iscrivono nel Registro dei donatori di midollo osseo, me ne ero dimenticata.
Un giorno mentre ero al lavoro sono stata contattata dal Centro trasfusionale:
«Sei A. C.?»
«Sì»
«Sei ancora disposta a donare?»
E lì sento un tuffo al cuore.
«Sì»
«Perché c'è bisogno del tuo midollo osseo. Quanti chili sei?» (Bisogna pesare almeno 50 chili e io allora pesavo 48 chili)
«50» - dissi - «50 chili».
Il primo sentimento che ho provato è stata la paura perché immaginavo subito l'intervento; mi avevano detto che non c'era molto tempo da aspettare, perché una persona aveva urgente bisogno del mio midollo osseo.
Non sto a dirvi tante cose; ero rimasta sola, avevo perso mio marito qualche anno prima ed avevo due ragazzi che facevano la Scuola Media. Per i miei genitori ero ritornata ancora figlia e loro mi aiutavano a tirar su i miei ragazzi, che quando io ero a lavorare e loro tornavano da scuola andavano a casa dei nonni. La mamma e il papà da piccoli mi avevano inculcato e testimoniato, attraverso il loro modo di pensare, la cultura della donazione.
Un giorno tornavo a casa e ho visto mia mamma che mi scolava la polenta velocemente ed io ho capito, perché lei faceva sempre così, che c'era qualcosa che non andava.
E allora ho chiesto a mio padre (a casa loro c'erano i miei ragazzi che facevano i compiti).
«Papà cosa hanno combinato i ragazzi? C'è qualcosa che non va?»
«No» disse «Sai, con tua mamma pensiamo... sì, ti abbiamo insegnato a donare, a spenderti per gli altri... siamo noi che ti abbiamo insegnato questo tipo di cultura però stavamo pensando che tu hai due bambini piccoli che non hanno il loro papà.
E' giusto che tu adesso sei chiamata a fare questo, a dare il tuo midollo, voglio che tu lo faccia, che ti senta entusiasta, però se ti dovesse succedere qualcosa che cosa faranno i tuoi bambini?
Che cosa faranno da soli? Hanno già perso il papà, tu hai questa responsabilità, che è doppia nei loro confronti».
Ed io sinceramente non ci avevo pensato, e ho detto «E' vero», e così mi sono trovata imbarazzata; pensai: "Che cosa faccio adesso? Che cosa farò? E' vero, sono passati dodici anni, le tecniche sono migliorate... l'anestesia... sono molto limitati i rischi però potrebbero esserci..."
Che cosa in coscienza potevo fare? Era una decisione da prendere che sentivo molto pesante.
E allora mi sono detta: "E se io avessi tre figli e il terzo fosse proprio questa persona ammalata, che cosa farei? Farei quello che fanno tutte le mamme. Tutta la mia attenzione sarebbe concentrata su quello che sta male perché gli altri comunque stanno bene adesso e così ho pensato... sì, ora ho tre figli, quello malato ha bisogno di me".
Questo pensiero mi ha dato la forza per prendere la decisione giusta e così, senza problemi, mi sono sentita liberata e sono andata a donare.